Io resto!
Il maso, che tutto tiene
La gente dice che essere testardi sia un difetto. Il vecchio zio Jacopo evidentemente non la pensava così. Altrimenti da un pezzo avrebbe cambiato vita. Sarebbe andato in Germania a fare il muratore. Comprare una casa di quelle moderne, con il termosifone e l’acqua calda.
Invece aveva deciso di restare. Per sottrarre terra alla montagna. Un sasso dopo l’altro. E trasformare in campi coltivabili quei ripidi pendii boscosi. Con le pietre avanzate aveva fatto gli argini che erano anche i confini di ciò che era suo.
Anche quel giorno si era svegliato prima dell’alba e aveva osservato il cielo. Il primo gesto della giornata. Una colazione frugale e poi nei campi bagnati di brina.
Le mani gelide, l’aratro che avanzava a fatica nella terra dura. Più volte si era chiesto perché avesse deciso di restare. Perché era cocciuto? Forse. Ma c’era qualcosa di più profondo, che non riusciva a spiegarsi neanche lui.
Quel giorno la domanda era prepotente. C’erano le scandole sul tetto che rischiavano di marcire, e andavano cambiate. Una ad una. Un lavoraccio che aveva rimandato già da troppo tempo.
Il maso non perdona. È un amante geloso. Ha bisogno di cure. Di attenzioni costanti. Per lui non esistono giorni festivi, non capisce se sei malato o semplicemente stanco. Non ha pietà.
Però è sempre lì. Pronto a proteggerti e donarti il calore del focolare mentre fuori nevica.
A questo pensava mentre lavorava il formaggio nel casello. Una stanzetta di legno all’interno della sua proprietà, perché lì nella Valle dei Mòcheni non esistevano malghe collettive dove portare il latte e ogni maso aveva il suo casello.
E non smetteva di pensare al perché avesse deciso di restare e se quella fosse stata la scelta giusta. I compaesani che erano andati via tornavano al paese con la loro Volkswagen bianca e un bel cappotto caldo. Vantavano di aver fatto fortuna.
Lui invece era restato a fare il contadino. Testardo come un mulo.
Hertkopfet.*
Lasciò il secchio nel casello e si avviò verso la porta del maso, mentre fuori si era già fatto buio.
Dentro, la moglie stava girando la polenta sul focolare, mentre i bambini, ancora troppo piccoli per lavorare, sistemavano i piatti. Sonia, sua sorella, stava terminando di rammendare un maglione. Più tardi li avrebbe raggiunti Tommaso, il fratello più giovane, con la moglie e le bambine. Erano scesi a Pergine per il mercato**.
Poi avrebbero cenato tutti insieme attorno allo stesso focolare.
Finalmente capì perché aveva deciso di restare.
Doveva prendersi cura del maso. Quello che teneva unito tutto.***
* Parola in lingua mòchena che significa "testardo"
** Nella Valle dei Mòcheni non esisteva la regola del "maso chiuso". Il maso, quindi, non veniva ereditato solo dal figlio maschio primogenito ma era diviso tra i membri maschi della famiglia. Ognuno di loro otteneva una porzione della proprietà, dove andava a vivere da solo o con la famiglia che aveva formato. Così, nel corso del tempo all'abitazione principale se ne affiancavano altre, dando luogo a piccoli agglomerati sparsi sul territorio che contraddistinguono tuttora il paesaggio
*** “Maso” deriva dal latino mansum o mansus, participio passato di manēre = “stare, rimanere”